Ma chi ci salva dal rumore on line
Cultura e informazione non si possono semplicementetrasferire dalla carta al digitale: bisogna inventare un nuovo valore aggiunto
Nel 1962 il quotidiano americano Seattle Times chiese ai lettori che futuro avrebbero avuto i libri nel XXI secolo, cioè ai nostri giorni. Con Kennedy alla Casa Bianca, i Beatles al primo 45 giri «Love me do» e Amintore Fanfani al quarto governo, il nostro presente era futuro remoto e la signora Ross disse «I libri saranno venduti ovunque, anche dal benzinaio» e fece centro. Il signor Clark azzardò «Leggeremo microfilm per mancanza di spazio, guardando i libri su visori speciali in casa, con immagini e suoni: l'economia andrà bene, il lavoro diminuirà e riempiremo il tempo libero con i romanzi in movimento…» più bravo su high tech che finanza. Leroy Soper intravide internet via televisione «Gli studiosi collegheranno le tv e studieranno archivi a Londra e Roma senza muoversi».
Non mancano gli errori blu: «La corsa allo spazio dominerà i libri del XXI secolo», ma a rileggere il Seattle Times, impaginato nel vecchio piombo tipografico, colpisce la fantasia dei lettori 1962. Nessuna acrimonia per la fine della carta, nessuna Apocalisse culturale, grandi attese. Cosa direbbero gli amici di allora guardando un iPad, un e-book, un Kindle, un Nook, un tablet, scaricando il Pdf di una remota biblioteca via Google Books, acquistando un paperback islandese via Amazon? I loro più arditi sogni superati da una magica rivoluzione tecnologica, così radicale da mutare non solo l'industria del sapere, l'editoria, ma anche scuola, società , mass media, scrittura e narrativa. A intuire la svolta fu per primo Italo Calvino, nella conferenza «Cibernetica e fantasmi», pronunciata a Torino nel 1967: le macchine trasmetteranno cultura, sostenne Calvino, e scriveranno romanzi. La letteratura cibernetica sarà «la letteratura» più vera, perché, prodotta da una macchina, renderà finalmente protagonista il lettore non l'autore. In rete oggi, accade proprio questo.
Nella ricerca per due corsi su cultura e politica digitali tenuti quest'anno, uno a Princeton University, l'altro alla Luiss «Guido Carli» di Roma, non ho trovato testo più visionario del Calvino 1967: cui potete abbinare la poesia «Tape Mark» fatta «scrivere» al computer (un bonario «cervello elettronico» per le buste paga della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) nel 1962 da Nanni Balestrini. A chi obiettava che i versi del computer non fossero poi un gran che, Balestrini rispose genialmente che non aveva cercato di ottenere con il suo algoritmo (integrale su gammm.org/index.php/2006/09/03/tape-mark-i-algoritmo-nanni-balestrini-1962/) la voce di un poeta umano, ma «la voce della macchina».
La rivoluzione digitale ci deve far riflettere sulla cultura, prima che sulla tecnologia. Siamo invece affascinati dal «retina display, che permetterebbe ai prodotti Apple di offrire la massima perfezione d'immagine percepibile dal nostro occhio (la rivista Wired non è persuasa) e non vediamo che la novità profonda tocca i contenuti, non le tecniche. È come se i contemporanei di Gutenberg avessero passato il tempo ad ammirare il suo torchio a caratteri mobili, invece di capire che solo la traduzione della Bibbia in Volgare apre la modernità . Senza Bibbia in tedesco, francese, inglese, italiano, fermi al latino, niente rivoluzione.
Noi, prima generazione digitale, stentiamo a creare nuovi contenuti e, dai siti dei quotidiani agli e-books, travasiamo testi tradizionali in formato elettronico, restando frustrati se il pubblico anticipa il futuro con la libera fantasia dei lettori Seattle Times 1962. Quando sul social media Pinterest nascono «board», lavagne elettroniche che sono affreschi di memoria e immagini. Quando Twitter, nato per messaggini tra amici, collega i link di qualità giornalistica del pianeta, facendovi seguire in diretta la battaglia di Kabul, tweet dopo tweet. Qualcuno obietta che un libro di carta non ha paragoni. E come dargli torto, se io stesso mi trascino dietro decine di migliaia di copie, rischiando senza donazioni a Caritas, don Mazzi e biblioteche popolari di finire travolto in casa come i fratelli Collyer del romanzo di Doctorow?
Ma quando Iliade ed Odissea non vennero più cantate ma trasmesse con le scritture inventata dapprima a Micene, non pochi si saranno lagnati della perdita di calore ai banchetti. E quando la pergamena contese il campo al papiro - i rotoli del Mar Morto usano entrambi i supporti, dopo una crisi delle esportazioni da Alessandria - la vecchia guardia avrà mugugnato, nell'equivalente a Qumran di un elzeviro di Terza Pagina, «La civiltà è perduta!». Ogni cambio di trasmissione culturale ci priva di qualcosa, le miniature in oro zecchino che gli amanuensi apponevano in cima alla loro pagine bibliche, la tradizione orale dei menestrelli per i cicli medievali, il fogliettone con il romanzo popolare dell'Ottocento. Triste ed inevitabile.
Il web non cancellerà l'informazione seria, gli e-book non oscureranno Lao Tzu, Dante e Shakespeare. Una ricerca Pew Center prova che i lettori su Kindle, Nook e iPad leggono anche molti più libri di carta della media, pewresearch.org/pubs/2236/ebook-reading-print-books-tablets-ereaders . Il mestiere di giornali e case editrici deve però cambiare: dando valore aggiunto di qualità a quotidiani e libri, ci salveremo dal rumore di fondo del web, comunque vada la battaglia tra Amazon, Microsoft, Barnes&Noble, Apple e Stati Uniti sul prezzo degli e-book.
Nella più bella e meno letta delle Lezioni americane, «Molteplicità », Calvino conclude che il romanzo e la conoscenza sono «una rete», anticipando di dieci anni il web. La sfida non è contrastare la rete, ma navigarla con raziocinio. Dite che Wikipedia ha inventato l'autore collettivo? Macché, già Bibbia, Odissea, Mahabharata, fiabe e ciclo di Re Artù avevano un autore collettivo. Il digitale ci riporta alle radici del sapere, non le sradica: Calvino lo capì per primo e a questo Salone sarebbe felice per le sue profezie avverate. Quanto ai predicatori di sventura digitale non ascoltateli troppo: nel 1894 il Times di Londra previde che entro il 1950 la città sarebbe stata sepolta da tre metri di sterco di cavallo. Non calcolava l'auto, perché chi guarda al futuro come un nuovo presente sbaglia. Sempre ;).
Non mancano gli errori blu: «La corsa allo spazio dominerà i libri del XXI secolo», ma a rileggere il Seattle Times, impaginato nel vecchio piombo tipografico, colpisce la fantasia dei lettori 1962. Nessuna acrimonia per la fine della carta, nessuna Apocalisse culturale, grandi attese. Cosa direbbero gli amici di allora guardando un iPad, un e-book, un Kindle, un Nook, un tablet, scaricando il Pdf di una remota biblioteca via Google Books, acquistando un paperback islandese via Amazon? I loro più arditi sogni superati da una magica rivoluzione tecnologica, così radicale da mutare non solo l'industria del sapere, l'editoria, ma anche scuola, società , mass media, scrittura e narrativa. A intuire la svolta fu per primo Italo Calvino, nella conferenza «Cibernetica e fantasmi», pronunciata a Torino nel 1967: le macchine trasmetteranno cultura, sostenne Calvino, e scriveranno romanzi. La letteratura cibernetica sarà «la letteratura» più vera, perché, prodotta da una macchina, renderà finalmente protagonista il lettore non l'autore. In rete oggi, accade proprio questo.
Nella ricerca per due corsi su cultura e politica digitali tenuti quest'anno, uno a Princeton University, l'altro alla Luiss «Guido Carli» di Roma, non ho trovato testo più visionario del Calvino 1967: cui potete abbinare la poesia «Tape Mark» fatta «scrivere» al computer (un bonario «cervello elettronico» per le buste paga della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) nel 1962 da Nanni Balestrini. A chi obiettava che i versi del computer non fossero poi un gran che, Balestrini rispose genialmente che non aveva cercato di ottenere con il suo algoritmo (integrale su gammm.org/index.php/2006/09/03/tape-mark-i-algoritmo-nanni-balestrini-1962/) la voce di un poeta umano, ma «la voce della macchina».
La rivoluzione digitale ci deve far riflettere sulla cultura, prima che sulla tecnologia. Siamo invece affascinati dal «retina display, che permetterebbe ai prodotti Apple di offrire la massima perfezione d'immagine percepibile dal nostro occhio (la rivista Wired non è persuasa) e non vediamo che la novità profonda tocca i contenuti, non le tecniche. È come se i contemporanei di Gutenberg avessero passato il tempo ad ammirare il suo torchio a caratteri mobili, invece di capire che solo la traduzione della Bibbia in Volgare apre la modernità . Senza Bibbia in tedesco, francese, inglese, italiano, fermi al latino, niente rivoluzione.
Noi, prima generazione digitale, stentiamo a creare nuovi contenuti e, dai siti dei quotidiani agli e-books, travasiamo testi tradizionali in formato elettronico, restando frustrati se il pubblico anticipa il futuro con la libera fantasia dei lettori Seattle Times 1962. Quando sul social media Pinterest nascono «board», lavagne elettroniche che sono affreschi di memoria e immagini. Quando Twitter, nato per messaggini tra amici, collega i link di qualità giornalistica del pianeta, facendovi seguire in diretta la battaglia di Kabul, tweet dopo tweet. Qualcuno obietta che un libro di carta non ha paragoni. E come dargli torto, se io stesso mi trascino dietro decine di migliaia di copie, rischiando senza donazioni a Caritas, don Mazzi e biblioteche popolari di finire travolto in casa come i fratelli Collyer del romanzo di Doctorow?
Ma quando Iliade ed Odissea non vennero più cantate ma trasmesse con le scritture inventata dapprima a Micene, non pochi si saranno lagnati della perdita di calore ai banchetti. E quando la pergamena contese il campo al papiro - i rotoli del Mar Morto usano entrambi i supporti, dopo una crisi delle esportazioni da Alessandria - la vecchia guardia avrà mugugnato, nell'equivalente a Qumran di un elzeviro di Terza Pagina, «La civiltà è perduta!». Ogni cambio di trasmissione culturale ci priva di qualcosa, le miniature in oro zecchino che gli amanuensi apponevano in cima alla loro pagine bibliche, la tradizione orale dei menestrelli per i cicli medievali, il fogliettone con il romanzo popolare dell'Ottocento. Triste ed inevitabile.
Il web non cancellerà l'informazione seria, gli e-book non oscureranno Lao Tzu, Dante e Shakespeare. Una ricerca Pew Center prova che i lettori su Kindle, Nook e iPad leggono anche molti più libri di carta della media, pewresearch.org/pubs/2236/ebook-reading-print-books-tablets-ereaders . Il mestiere di giornali e case editrici deve però cambiare: dando valore aggiunto di qualità a quotidiani e libri, ci salveremo dal rumore di fondo del web, comunque vada la battaglia tra Amazon, Microsoft, Barnes&Noble, Apple e Stati Uniti sul prezzo degli e-book.
Nella più bella e meno letta delle Lezioni americane, «Molteplicità », Calvino conclude che il romanzo e la conoscenza sono «una rete», anticipando di dieci anni il web. La sfida non è contrastare la rete, ma navigarla con raziocinio. Dite che Wikipedia ha inventato l'autore collettivo? Macché, già Bibbia, Odissea, Mahabharata, fiabe e ciclo di Re Artù avevano un autore collettivo. Il digitale ci riporta alle radici del sapere, non le sradica: Calvino lo capì per primo e a questo Salone sarebbe felice per le sue profezie avverate. Quanto ai predicatori di sventura digitale non ascoltateli troppo: nel 1894 il Times di Londra previde che entro il 1950 la città sarebbe stata sepolta da tre metri di sterco di cavallo. Non calcolava l'auto, perché chi guarda al futuro come un nuovo presente sbaglia. Sempre ;).
Via lastampa.it
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